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Roy Doliner & Benjamin Blech, I segreti della Sistina

Ha ragione l’ottimo Augias, quando nella Prefazione di questo eccezionale saggio artistico / indagine cabalistica / ricerca talmudica, dice di non voler anticipare troppo delle scoperte a cui i due autori sono giunti. Allora come redigere una nota di lettura svelando qualcosa, ma senza togliere il gusto di una futura, eventuale, lettura completa?

Iniziamo col ricordare che Michelangelo, nelle parole di suo padre, Ludovico, “secondo il calendario fiorentino, che conta dall’Incarnazione, nasce il 6 Marzo 1474, e secondo il calendario romano, che conta dalla Natività, è il 1475”.

Fin dalla nascita, la vita del grande artista è segnata dal binomio Firenze/Roma: non solo due città letteralmente “capitali” d’Italia, ma simbolicamente le patrie di due filosofie e due stili di vita totalmente opposti; lo scopo evolutivo di Michelangelo, durante tutta la sua esistenza, sarà proprio quello di riunire in un mistico ponte arcobaleno queste due città fiorite in riva a due fiumi. Ricordiamo quest’immagine del ponte e arcobaleno., perché riapparirà in seguito.

Solo qualche brevissimo cenno sull’educazione umanistica del Nostro, il cui nome, nel Medioevo e nel Rinascimento, era ancora assegnato nei casi in cui c’era stato pericolo per il neonato o per la madre al momento del parto. Ma quel nome richiama anche Mikha-el ha-Malakh, l’angelo difensore del popolo ebraico. E nessun altro nome avrebbe potuto “marchiare” e “manifestare” più pienamente il destino di Michelangelo.

Presso la corte dei Medici, infatti, il fanciullo riceve un’educazione totalmente fuori dai normali circuiti culturali dell’epoca: viene edotto in ebraico, cabala, Talmud e midrash da alcuni dei più valenti personaggi che arricchivano della loro presenza la corte di Cosimo de’ Medici e in seguito di Lorenzo il Magnifico; suoi insegnanti furono infatti Pico della Mirandola, Marsilio Ficino, il Ghirlandaio e Leon Battista Alberti.

Lo spirito di tolleranza e di fratellanza universale, che permette a Firenze di accogliere anche gli ebrei non come cittadini di seconda e terza classe, ma come più o meno onorati ma certamente ricercati (in senso buono) professionisti, non fa semplicemente breccia nel cuore e nella mente di Michelangelo: vi trova letteralmente la propria antica dimora, quasi come se l’artista avesse coscienza, o quanto meno incerti e vieppiù nitidi ricordi delle vite precedenti. Egli apprende con estrema facilità la lingua e i costumi giudaici e per tutta la vita cerca di far comprendere, attraverso la sua Opera, che tutti siamo Uno, e che la redenzione dell’anima può avvenire solo tramite l’Amore e la Bellezza, che per inciso, sono anche i nomi di due Sefirot: Tiferet la Bellezza e Hesed l’Amore.

Insomma, il genio fiorentino era in contatto con le potenze che secondo il misticismo ebraico hanno creato l’intero universo, e le sue opere lo dimostrano. Inutile però descrivere ogni singolo dettaglio. Offrirò qui solo brevi accenni ai “segreti” che in ogni capitolo del saggio mi hanno maggiormente affascinata e, per dirlo con Paolo e Francesca, li occhi mi sospinsero innanzi...

La Madonna della Scala

Perché cinque gradini? Perché cinque, secondo la cabala, sono i livelli dell’anima umana: nefesh, ruach, neshamà, chayà, yechidà, che corrispondono all’energia vitale, al corpo emotivo, all’anima (o corpo causale), allo spirito e all’anima unificatrice o trascendete che unisce l’uomo a Dio (Atman). “Il Talmud insegna che il carattere e la spiritualità di re Davide gli furono infusi col latte materno, e lo stesso Michelangelo disse una volta che la sua straordinaria abilità nel modellare il marmo era un dono che aveva ricevuto col latte della sua balia. Michelangelo sta suggerendo dunque che la Madonna, allattando, preveda come il destino di suo figlio sia quello di trascendere i cinque stadi dell’anima umana e ricongiungere l’uomo a Dio. Nella mitologia greco-romana vi sono per altro altri interessanti cenni a come sia proprio il nutrimento a trasformare il destino di un personaggio. Un esempio per tutti: Eracle e Ificle sono entrambi figli di Alcmena, ma mentre il primo è stato concepito con l’olimpio Zeus, il secondo è figlio del terrestrissimo Anfitrione, sposo di Alcmena. La semi-divinità di Ercole però, per non andare persa, va in qualche modo “rafforzata”, e per questo Zeus fa allattare il piccolo con l’inganno dalla divina Era, il cui latte rende invincibile l’eroe. 

Crocifisso, chiesa di Santo Spirito, Firenze

Significativo che Michelangelo abbia scolpito con cura e precisione non solo la parte anteriore dell’Appeso divino, ma anche quella posteriore, quasi a suggerire l’idea che “l’essenziale, pur essendo invisibile agli occhi”, c’è, e il creatore (in questo caso il microcosmico scultore) ne è cosciente proprio perché ha creato sia ciò che si vede che ciò che non si vede.

L’attenzione dell’artista giunge fino a scolpire anche i peli del torace e delle ascelle del Cristo. Pare abbia addirittura crocefisso un cadavere spirato di fresco per vedere come i muscoli si sarebbero disposti attorno ai chiodi! Pratiche che a noi moderni paiono strane e macabre, ma all’epoca non pochi pittori e scultori si trasformavano nottetempo in tombaroli e ladri di cadaveri, o pagavano qualcuno che lo facesse per loro, per vivisezionare i cadaveri dei criminali uccisi in giornata e studiarne l’anatomia. E molti erano amici dei medici, che avevano tra gli Ebrei i loro esponenti migliori, al punto che persino papi antisemiti come Giulio II avevano tra i chirurghi di corte vari anatomisti giudei.

Interessante scoprire che sul crocifisso il Nostro non riporta il classico INRI, ma l’intero titulus crucis in tre lingue: latino, greco ed ebraico. La frase ebraica, ovviamente, è scritta da destra a sinistra, ed è seguita dalle altre due iscrizioni a rovescio, ma non dice, come ci si aspetterebbe, “re dei Giudei”, bensì “re dai Giudei”: Michelangelo corregge infatti il sintagma melech-ha-Yehudim in melech-me-Yehudim, ad indicare che “il Gesù adorato dalla Chiesa era ebreo e proveniva dal popolo ebraico e dalla sua fede”.

Magari questo concetto adesso può sembrare scontato, ma per arrivare a formularlo (e mettendo tra parentesi la tragedia nazista) ci è voluto il Concilio Vaticano II e il definitivo abbandono, da parte della Chiesa, dell’idea degli ebrei “deicidi”, con relativa proclamazione che in realtà essi sono nostri “fratelli maggiori”. Michelangelo non solo lo scrive sul crocefisso, ma lo dipinge in tutta la Cappella Sisitina. Con cinquecento anni di anticipo, e a rischio di finire appeso pure lui, o arso vivo come Giorndano Bruno.

Passiamo ora a un paio di temi un po’ scabrosi. Dell’omosessualità dell’artista nessuno ormai fa più mistero, né ci si scandalizza oggigiorno per le tendenze “strane” degli artisti in generale. D’altra parte, ai geni ribelli si è sempre perdonato un po’ tutto, forse proprio perché, ponendosi volontariamente fuori dalla “normalità” civile, tanto preziosa per la società borghese, non fanno così tanta paura.

Le cose sono cambiate nel XX secolo quando invece “i diversi” hanno voluto manifestare la propria essenza all’interno della società civile ed essere da questa accettati. E in questi nostri assurdi tempi “woke” siamo giunti quasi al rovesciamento di questo fenomeno, per cui “per rispetto della diversità altrui”, una normalissima madre e un normalissimo padre adesso si trovano a dover firmare le pagelle dei figli sotto i riquadri dedicati al “genitore 1” e “genitore 2”… Mi chiedo quand’è che si tornerà a guardare il corpo umano come tempio dello spirito, e la sessualità tornerà alla sua primigenia funzione di elevazione dell’uomo alla sua parte più divina, a prescindere dal sesso fisico delle due anime che s’incontrano nello specchio degli occhi?.

Michelangelo pareva vivere già quella situazione “edenica” e perciò le sue “allusioni” (tutt’altro che velate) alla pansessualità sacra invadono letteralmente tutta la cappella (mi si scusi il pruriginoso bisticcio di parole). Un esempio? Gli autori fanno notare, quasi ridendo sotto i baffi, l’allineamento della bocca di Eva coi genitali di Adamo nel pannello della Tentazione. Se la testa di Eva fosse girata di 180°, spiegano, la scena sarebbe decisamente “vietata ai minori”.

Ma con quell’immagine Michelangelo voleva mostrare proprio la purezza dei progenitori, e con ciò la totale, radicale e assoluta inesistenza del peccato originale. Aggiungiamo poi che, secondo un’interpretazione del Midrash, Dio non pone mai l’uomo in difficoltà senza offrirgli il rimedio, proprio perché scopo di Dio non è tentare l’uomo, ma disseminargli il cammino di “momenti di apprendimento”, che purtroppo, in questo sistema solare, pare non possano prescindere dal dolore. E così ecco “la caduta”, e la susseguente vergogna. Ma ecco che il buon Dio viene in aiuto alle sue creature, offrendo loro, dallo stesso albero da cui hanno colto il frutto della supposta colpa, anche qualcosa per coprirsi: le foglie di fico.

Già perché non di un melo si trattava, ma di un fico. E se ora questa interpretazione è un po’ più conosciuta (forse in Italia soprattutto grazie all’immensa opera divulgativa di Mauro Biglino), nel 14oo era nota solo a chi aveva dimestichezza con la letteratura ebraica, che il Buonarroti aveva appreso da Ficino e Pico. 

Non solo nella volta, ma anche nel Giudizio Universale il nudo regna sovrano, tanto che Giovanni Paolo II nell’omelia pronunciata nella Pasqua del 1994 poté affermare che “l’opera è pervasa da un’unica luce e da un’unica logica artistica: la luce e la logica della fede che la Chiesa proclama, confessando Credo in un solo Dio... creatore del cielo e della terra, e di tutte le cose, visibili e invisibili. Sulla base di questa logica, nell’ambito della luce che proviene da Dio, anche il corpo umano conserva il suo splendore e la sua dignità”, e per questo il nudo non è né osceno, né offensivo, ma umano e divino al contempo. Omnia munda mundis, diceva Fra Cristoforo.

Ancora due parole di tributo all’astuzia di Michelangelo, che ha celato non solo messaggi eccelsi d’amore, armonia, unione e fratellanza, ma anche potenti gesti di scherno rivolti ai suoi committenti. Mica solo i rapper moderni fanno dissing… Fin troppo facile farlo nel 2024. Provate a farlo nel Rinascimento, mentre siete ospiti/carcerati di un papa egotico e antisemita e gli state letteralmente disseminando la chiesa di messaggi filogiudaici e “porno soft omosessuale”! Come se tutto ciò già non bastasse, ecco che alle spalle di Zaccaria scorgiamo due puttini.

Guardate bene come sono disposte le dita della mano del biondino. Ora osservate le mani di quest’altro angioletto nel pannello della Sibilla Cumana. I casti e puri autori definiscono questo gesto “fare i fichi” e lo paragonano all’odierno “dito medio”... ma i dantisti ricorderanno un certo verso del XXV canto dell’Inferno:

“Al fin delle sue parole il ladro 
le mani alzò con amendue le fiche”

Michelangelo amava Dante, che aveva scoperto relativamente tardi, ma che aveva assimilato prestissimo (sia dal punto di vista del linguaggio che in relazione ai concetti esoterici) e perciò non è senza importanza che il gesto descritto dal Sommo Poeta venga immortalato dall’artista non una, ma due volte, come “amedue” sono le mani che il personaggio del canto summenzionato leva a Dio...

Ma la maestria di Michelangelo non finisce qui. Troviamo infatti nel duplice gesto un magnifico climax: infatti qui non è un ladro che leva il gesto verso l’alto, bensì due puttini che indirizzano il gesto verso il basso, venti metri più in basso, dove l’ignaro papa Giulio II crede di vedere se stesso glorificato nel personaggio del profeta Zaccaria, che Michelangelo ha dipinto col suo volto, mentre l’immagine allude al fatto che se la Chiesa non abbandonerà il culto dell’oro e del lapislazzulo (le due materie prime di base che dovevano servire per formare i due colori dello stemma papale, l’oro e il blu) accadrà ad essa lo stesso che è accaduto al disperso popolo ebraico. E mi pare che con Bergoglio la Chiesa stia correndo incontro al suo destino a passi da Nefilim!

Non a caso l’altro puttino si affaccia sfacciato dal pannello della sdegnosa sibilla cumana, che ammonisce il superbo Tarquinio e si fa pagare i libri sibillini quattro volte più del prezzo originario donandogliene però solo un terzo, in quanto gli altri due terzi sono andati distrutti nel fuoco della superbia del re.

                                                                                       * * *

All’inizio di questa nota di lettura abbiamo alluso a certo un ponte arcobaleno, che è quello che Michelangelo ha voluto gettare tra la fede antica e la fede moderna. Il mondo in cui viveva, infatti, era dilaniato non solo dalle divisioni tra le tre grandi fedi veterotestamentarie, ma ormai anche all’interno dello stesso cristianesimo c’erano dissidi a non finire.

Lui che viveva all’insegna della Bellezza e alla ricerca dell’Amore, alla fine della sua esistenza fu letteralmente graziato dall’incontro con un certo “Cavalier” che ha tinto materialmente di azzurro cielo i suoi ultimi anni. E dal ceruleo sfondo del Giudizio Universale, ricavato dalla costosissima polvere di lapislazzuli (che questa volta non doveva pagare lui, ma era stata inclusa nel contratto e quindi poteva usarne e abusarne), la scena trascolora in uno smagliante verde smeraldo, che si eleva fino all’oro di un altro ponte, quello che conclude la Fiaba di Goethe, già citata più volte in questo blog.

La mercuriale serpe verde fa sacrificio di sé affinché gli altri possano salvarsi: Essa dissolve il proprio individualismo di “serpente” per dedicarsi al servizio altruistico e trasmutarsi in “ponte” e favorire così l’unione del passato col futuro, del maschile col femminile, del materiale con lo spirituale, dell’umano col divino.

Giacché Dio è nei dettagli, e solo nella caduta troviamo l'ascesa.
Proverbio cabalistico.

I Tre Linguaggi - Jakob e Wilhelm Grimm

C'era una volta in Svizzera un vecchio conte che aveva un unico figlio, che era così
stupido da non riuscire a imparare nulla. Allora il padre disse: “Figlio mio, per quanto io faccia, non riesco a cacciarti niente in testa. Devi andartene via di qui; maestri insigni proveranno a far ciò che io non ho potuto”.

Il giovane fu mandato quindi in un'altra città e rimase presso un Maestro per un intero anno, al termine del quale tornò a casa. Il padre gli chiese: “Cos’hai imparato?” Il figlio rispose: “Ho imparato quello che abbaiano i cani”. “Dio ci salvi!” esclamò il padre “Tutto qui? Andrai in un'altra città, presso un altro Maestro”.

Il giovane andò e stette via per un altro anno. Quando ritornò, il padre chiese: “Cos’hai imparato?” Il figlio rispose: “Ho imparato il linguaggio degli uccelli”. Allora il padre andò in collera e disse: “Sciagurato! Hai perduto tutto quel tempo prezioso senza imparare nulla e non ti vergogni di comparirmi davanti? Ti manderò da un terzo Maestro, ma se anche questa volta non impari nulla, non voglio più essere tuo padre”.

Così il giovane fu portato da un terzo Maestro presso il quale rimase un altro anno. Quando finalmente tornò a casa, il padre gli chiese: “Cos’hai imparato?” “Caro babbo” rispose “quest'anno ho imparato quello che gracidano le rane”. Allora il padre andò su tutte le furie, balzò in piedi, chiamò la servitù e disse: “Quest'essere non è più mio figlio, io lo scaccio e vi ordino di condurlo nel bosco e ucciderlo”. Essi lo presero e lo condussero fuori, ma al momento di ucciderlo ne ebbero pietà e lo lasciarono andare. Poi strapparono a un capriolo gli occhi e la lingua e li portarono al vecchio come prova della sua morte.

Poiché‚ questa era la sua volontà, il giovane si mise in cammino e dopo qualche tempo giunse a un castello dove chiese asilo per la notte. “Se vuoi pernottare laggiù nella seconda torre” disse il castellano, “va' pure, ma ti avverto che rischi la vita: è piena di cani feroci che abbaiano e latrano senza tregua e, a ore fisse, bisogna consegnare loro un essere umano che essi divorano subito”.

Per questo, nella zona ognuno era in lutto e in gran tristezza e nessuno sapeva cosa fare. Il giovane disse: “Lasciatemi andare da quei cani feroci e datemi qualcosa da gettar loro in pasto; a me non faranno nulla”. Gli diedero un po' di cibo per gli animali e lo condussero giù alla torre. Quando entrò, i cani gli scodinzolarono intorno amichevolmente senza torcergli un capello e mangiarono ciò ch’egli mise loro davanti. Il mattino seguente, con grande stupore di tutti, uscì sano e salvo dalla torre e disse al castellano: “I cani mi hanno rivelato nel loro linguaggio perché devono arrecar danno al paese: sono stati stregati e devono custodire un gran tesoro nella torre e non si cheteranno finché non sarà dissotterrato. I loro discorsi mi hanno rivelato come fare”. A queste parole tutti si rallegrarono, e il castellano disse: “Se riesci a recuperare il tesoro, ti darò in sposa mia figlia”. Il giovane accettò l'impresa, disseppellì il tesoro e i cani sparirono. Così sposò la bella fanciulla e vissero insieme felici.

Dopo un certo periodo di tempo i due si misero in viaggio per recarsi a Roma. Lungo il cammino passarono davanti a uno stagno in cui gracidavano delle rane. Il giovane conte capì ciò che stavano dicendo, ed era triste e pensieroso, tuttavia non disse nulla alla moglie

Infine giunsero a Roma: il papa era appena morto e fra i cardinali c'era grande incertezza su chi dovesse essere designato come successore. Infine convennero che sarebbe stato eletto papa colui che avesse manifestato un segno miracoloso della volontà divinaAvevano appena preso questa decisione quando in chiesa entrò il giovane conte, e subito due colombe bianche come la neve gli si posarono sulle spalle e là rimasero. Il clero riconobbe il segno divino e, senza indugi, gli domandò se volesse diventare papa. Egli era esitante e non sapeva se ne fosse degno, ma le colombe lo convinsero ad accettare e rispose di sì. Allora fu unto e consacrato, e così si compì ciò che, con tanta costernazione, egli aveva udito dalle rane per strada: che sarebbe diventato il Santo Padre
Poi dovette cantar messa, ma non ne sapeva neanche una parola. Le due colombe però gli stettero sempre sulle spalle e suggerirono ogni parola che doveva dire.

                                                                                        ***

Con buona pace dei massoni, I Tre Linguaggi è la trentatreesima fiaba della raccolta delle fiabe popolari, intitolata Kinder- und Hausmärchen e pubblicata da Jakob e Wilhelm Grimm per la prima volta nel 1812.

In un lavoro precedente in cui mi sono occupata delle fiabe alchemiche (e da cui, se a qualcuno interessa, prossimamente pubblicherò degli estratti) non ho focalizzato l’attenzione su questo breve ma affascinante testo, che ora riceve finalmente la dovuta considerazione.

Molti sono gli indizi che ci permettono di classificare questo testo come fiaba alchemica:

- in primo luogo, la “stupidità” del protagonista è una caratteristica fondamentale, che pone il personaggio in una situazione di ignoranza intellettuale e ingenuità d’animo totali, che sono la base su cui potrà essere edificata la vera conoscenza;

- tale conoscenza si sviluppa in tre anni consecutivi presso tre Maestri differenti, in tre città diverse, e consiste nell’apprendimento del linguaggio, rispettivamente, dei cani, delle rane, degli uccelli.

- Il Cane è un animale terrestre, la rana è una bestia acquatica e gli uccelli sono naturalmente delle creature volatili. Essi rappresentano quindi la conoscenza dei segreti dei primi tre elementi: Terra, Acqua e Aria.

- Il Fuoco, al negativo, viene incarnato dall’ira distruttrice del vecchio conte, che rinnega la paternità su un figlio così stupido, e ne ordina l’uccisione.

- L’aspetto positivo del Fuoco è rappresentato dal capriolo che viene immolato al posto del figlio (scena che potrebbe sembrare di biblica memoria, ma che è molto più antica rispetto al racconto biblico, e si perde nelle saghe degli antichi Celti e Germani) e al quale vengono strappati occhi e lingua.

- Ma il Fuoco potrebbe essere simboleggiato anche dalle due colombe che si posano sulle spalle del protagonista. Nei trattati e dizionari alchemici, infatti, viene sovente ricordato come uno stesso simbolo e una stessa figura possa assumere vari significati, sia a seconda della fase dell’opera in cui compare, sia a seconda della volontà dell’autore stesso, che parla “per enigmi” perché così vuole l’Arte. Cristianamente, quindi, la Colomba è il simbolo dello Spirito Santo, il Fuoco divino, ma alchemicamente è anche simbolo dell’Opera al Bianco, che contraddistingue il coronamento delle prime “Nozze Chimiche”, al termine della fase di Albedo.

Ricordate le tre scimmiette (che poi sono quattro...) “Non vedo - non sento - non parlo”? La sorte del capriolo ci mostra che il nostro giovane conte (in tedesco Graf, e qualunque buon esoterista sa che non è per caso se il termine tedesco allude alla Grafia e l’italiano al far di conto...), grazie ai tre anni di apprendistato, si trova ora nella condizione di chi è abbastanza saggio da tacere e da non guardare troppo, e abbastanza cosciente di sé da sapere di non sapere, e quindi di essere pronto ad ascoltare.

- Le tre lingue quindi non sono altro che il linguaggio segreto impiegato dagli Alchimisti per comunicare senza tema di essere scoperti. Nel libro Le Mystère des Cathedrales l’Iniziatio Fulcanelli definisce tale codice segreto “linguaggio degli uccelli” e “lingua verde”, richiamata, nella fiaba, dal colore delle rane:

"la Lingua degli Dei o degli Uccelli è madre e signora di tutte le altre lingue dei filosofi e dei diplomatici. È quella lingua della quale Gesù svela la conoscenza ai suoi apostoli, inviando loro lo Spirito Santo. Essa insegna il mistero delle cose e svela le più nascoste verità. Gli antichi Incas la chiamavano Lingua di corte, perché era conosciuta dai diplomatici, ai quali forniva la chiave d'una duplice scienza: la scienza sacra e la scienza profana. Nel Medioevo era chiamata Gaia scienza o Gaio sapere, Lingua degli dèi, Diva-Bottiglia. La Tradizione ci tramanda che gli uomini la parlavano prima della costruzione della torre di Babele. L'argot è una delle forme derivanti dalla lingua degli uccelli".

- Quanto ai cani, simboli alchemici dello Zolfo e dell’Oro, occorre rilevare due dettagli: in primo luogo, essi si trovano nella seconda torre e custodiscono un tesoro sotterraneo. Costituiscono perciò un chiaro richiamo al “come in alto, così in basso”, e indicano inoltre che il conte, realizzato il primo matrimonio alchemico, quello tra i suoi quattro elementali, è pronto ora per le seconde nozze, quelle con la figlia del castellano.

I cani sono anche un’anticipazione del finale: riuscendo a comprenderli e a domarli, il conto ne diviene Signore: Dominus Cani, con un significativo richiamo  all’ordine religioso omonimo.

- A nozze avvenute, i due sposi riposano un po’, com’è richiesto alla materia che ha raggiunto il color bianco, e poi si rimettono in viaggio. Abbiamo già citato parzialmente il simbolismo della rana, animale verde e acquatico che richiama il secondo Solve che occorre attuare ora. La materia purificata deve infatti abbandonare le ultime impurità, per questo il protagonista si rattrista: deve rinunciare a una parte di sé (la moglie) per assurgere a uno status superiore.. In realtà questa rinuncia però non è una perdita, ma un’integrazione. Una volta assunte in sé le caratteristiche del femminile, ne deve abbandonare le limitazioni. La sua nomina a Pontifex rappresenta proprio questo, la sublimazione del fisico nello spirituale e richiama pure i finale di un’altra Fiaba, ancora più simbolica: mi riferisco alla “Fiaba della Serpe verde e della bella Lilia” di Goethe, di cui ho scritto qui https://stellapik.blogspot.com/2024/05/la-fiaba-di-goethe-e-la-magia-verde_9.html

Giunto a Roma, due colombe si posano sulle sue spalle, a segnalare ai cardinali in conclave che è proprio lui l’eletto che dovrà salire al soglio pontificio. Queste due colombe che si posano sulle spalle del protagonista non sono un unicum nella raccolta grimmiana. Le ritroviamo anche in Aschenputtel, ovvero Cenerentola, quando la fanciulla convola a giuste nozze col principe e due colombe le si posano sulle spalle e lì restano durante tutta la cerimonia. Alla fine della celebrazione, ciascuna colomba cava un occhio alle due sorellastre, di modo che la loro cecità divenga la manifestazione esterna della loro cattiveria e falsità. Nella fiaba che stiamo esaminando adesso, invece, le colombe contribuiscono a creare una scena lievemente ironica, in quanto il giovane Papa (ogni riferimento è puramente casuale) capisce tre lingue, parla la “Lingua degli Uccelli” di fulcanelliana memoria, ma non sa nulla di latinorum, come direbbe Renzo, e così le colombe gli suggeriscono come cantar messa. Dopotutto, le lingue sono uno dei sette doni dello Spirito Santo, e come abbiamo visto, oltre ad essere il simbolo alchemico della volatilizzazione del fisso, le colombe sono anche il simbolo religioso della Terza Persona della Trinità.

Troviamo nel finale di questa fiaba alcune affinità col Gregorius, detto anche Il buon peccatore, opera del cantore tedesco Harmann von Aue, che risale alla fine del XII secolo e che prende spunto da una leggenda cortese tedesca.

Nel Medioevo, col proliferare e l’espandersi delle piccole corti tedesche all’interno dell’enorme Sacro Romano Impero Germanico, il potere temporale (la corona imperiale) doveva trovare un ambito in cui potesse mostrarsi superiore al potere spirituale (il papato), dal quale per un millennio era stato legittimato.

Questo tentativo di sopraffazione degli imperatori sui papi (tentativo ancora in corso, considerato il fatto che ancora nel XXI secolo le parole dei papi – e peggio ancora, quelle degli antipapi e dei papi neri, hanno più risonanza mediatica dei discorsi dei potenti) emerge anche nella letteratura, che è sempre lo specchio della società.

Nelle opere tedesche il fenomeno del “cesaropapismo” è però risolto per intervento divino, infatti, quando i vescovi non sanno a che santo votarsi per eleggere il nuovo papa, il candidato viene loro indicato tramite inequivocabili segni divini che per miracolo mostrano l’imperscrutabile volontà divina, laddove invece nel mondo reale l’elezione del successore al soglio pontificio spesso non aveva nulla di divino e si realizzava per mezzo di umanissime lotte tra famiglie. Ma questa è un’altra storia.

Vale!

L'Ombra dell'occhio del pavone

Tara implorava il suo Maestro: Savio dei Savi, aiutami a eliminare i miei difetti!
Il Maestro rispose: Devi spere che esplorare il proprio gemello oscuro può essere orribile, ma quanto più si conosce la propria cattiveria, tanto più ci si può proteggere da quella altrui.
Tara confermò: Sono pronta a vedere il male all’interno di me per riconoscerlo ed estirparlo ll’esterno.
Allora il Maestro le chiese: Hai mai sentito di quell'uomo che, scoperta una pianta velenosa nel suo campo, la estirpò, ma naturalmente l'erbaccia ricrebbe più forte di prima proprio grazie alla potatura?
- Certo! Che stolto quell'uomo: ignorava che la potatura irrobustisce le radici.
- Già... Si narra poi di un altro uomo, il quale, scoprendo la pianta velenosa nel suo orto, la sradicò e la gettò nel giardino del vicino, non curandosi del danno che la pianta avrebbe causato lì. Da là essa crebbe e ritornò a invadere il suo orto.
- Non si dovrebbe agire contro gli altri, preché ogni azione crea una reazione... É il karma!
- Già... Un terzo uomo, un medico, sapeva come estrarre dalla pianta un rimedio curativo. E un quarto uomo, vedendo la pianta tossica, si rallegrò perché sapeva che quella pianta è il cibo sacro del pavone divino.
- Già, annuì Tara.
- Questo è il metodo per eliminare i tuoi difetti.

Affinché abbia luogo la chiarificazione spirituale, spiegano i saggi buddisti, dobbiamo riconoscere e assimilare i nostri veleni interiori e i difetti, applicando alla loro osservazione una prospettiva illuminata che ne riconosca la preziosità. Nel buddhismo il pavone è il simbolo dell’illuminazione per via degli occhi sulla sua coda: gli occhi della visione.

Similmente, Marie Louise von Franz, ottima allieva di Jung, nello splendido saggio Il femminile nella fiaba, ha spiegato che:

"discendere nella propria Ombra all’inizio è molto sgradevole e i risultati non sono affatto divertenti, ma questa discesa ha un gran vantaggio: il male all’interno di noi riconosce il male all’esterno.
Chi rimane ingenuo circa le proprie cattive intenzioni, rimane vittima delle cattiverie altrui. Le persone che si lasciano maltrattare dagli altri sono o molto giovani o troppo candide; ma soprattutto sono indirettamente responsabili di ciò che accade loro, non hanno sufficiente coscienza del male che hanno in sé. Se l’avessero, acquisirebbero una sorta di percezione intuitiva del male negli altri e non presterebbero il fianco.
Trasportato dal corso naturale, il male finisce sempre per distruggere se stesso. Chi penetra nelle tenebre distruttive della propria natura e del desiderio di morte, provoca di norma la reazione contraria ed è ripreso dall’istinto positivo".
 

Be my knife - 7. Dell’Altrove e dell’ultimo coltello

Uno sconosciuto ha visto in me qualcosa che l’ha colpito al punto da spingerlo ad affidarmi la sua anima. È il contratto che abbiamo stipulato: anima per anima. A quel punto della vira, un incontro a metà strada non basta più, il vero incontro avverrà solo se ciascuno di noi compirà tutto il cammino verso l’altro. Credo di non aver mai percorso un tragitto così lungo, ma la tua voce illuminerà il mio cammino, così come il mio canto guiderà i tuoi passi.

Pianto?” hai chiesto. Non più: ora il pianto si schiarisce in un canto. L’angoscia che tutto quello che c’è di buono in me non sarà mai dato a nessuno, e che nessuno lo vorrà mai, è svanita, e ogni volta il cuore sussulta sentendoti pronunciare il mio nome.

Forse nemmeno tu capisci cosa sia ad emozionarmi tanto, ma la tua lettera, piena di calore e di luce – soprattutto il postscriptum finale, solo una riga - mi è sembrata come un passaggio dall’ombra alla luce. Come se tu mi avessi teso una mano, facendomi superare il confine oltre il quale si trova la luce. Gentilmente, come se fosse del tutto naturale con un estraneo.

Spesso penso che in me non ci sia neanche una molecola d’innocenza, e ciononostante mi rivolgo a te con candore. Da quando ho iniziato a scriverti le parole sono sgorgate da una fonte nuova, come se un seme fosse stato tenuto in serbo per un’annata particolare.

Ti chiedo solo di non lasciarmi la mano fino a quando ci colmeremo dell’intensa emozione della nudità. Non fraintendermi, non parlo di una nudità erotica, ma della nudità dei pensieri, come quella delle tue parole nelle lettere. Quanto più sei distante fisicamente, tanto più riesci a svelarti.

Lo so, non c’era bisogno di spiegarlo, che questo tuo “vero io” non ha nulla a che vedere con me, è qualcosa di completamente tuo. Ma io leggo anche quello che hai aggiunto sotto, con una strana grafia: a volte provi un brivido scoprendo come un estraneo riesca a notare, con un solo sguardo, questa tua essenza e, senza conoscerti, a chiamarla col suo vero nome.

Magari smetterò di vivere nel mondo, nella cosiddetta vita, per limitarmi a scrivere, a descrivere te in ogni situazione e a raccontare come mi sento mentre ti guardo, perché tra poco finirà questo dialogo tra noi, quando moriremo l’uno per l’altra, anche se tu non ne vuoi sentir parlare. Ad ogni lettera ti crei di nuovo e quasi dal nulla in me. Da dove rubi la sostanza in cui ti materializzi nella stanza ogni volta? Noi non siamo vivi in questo mondo, ne abbiamo parlato, ricordi? Ma è vivo tutto ciò che abbiamo scritto.

Così a volta parlo a me stessa col tuo timbro, la tua voce scritta, e una punta di tristezza nel fondo. Come hai scritto tempo fa, “esistono tra noi incredibili tratti di somiglianza. A volte li scorgo nelle lettere, sono come dei cavi elettrici, carichi di tensione e di pericolo”.

La somiglianza tra noi è forse soprattutto in ciò che tu definisci “i torbidi meandri dell’anima”. Per questo non posso fare a meno di continuare ad avvicinarmi a chi mi rimanda l’eco delle cose che meno amo in me stessa. Mi avvicino a te fino a lambire i tuoi pensieri, per poi scoprire che sono come sassi nelle acque della mia mente, e ciò che tu esprimi o celi modifica il mio intero bios. Te ne eri accorto?

* * *

 Per uno strano miracolo siamo riusciti a sottrarci al legame strategico che unisce uomini e donne, e questa nostra vicinanza e questo nostro riversarci l’uno nell’altra ci hanno permesso di percorrere un lungo camino, in fondo al quale abbiamo scoperto che i nostri corpi sono solo un accidente. Quel che conta davvero è l’Essere.

Nel punto in cui ci troviamo ora ti è proibito proteggermi: è il nostro patto. Questa notte ci scriviamo tutto, mano nella mano, nient’altro che la verità, che risuona come l’eco di una risata montana. Un mese dopo l’altro ci siamo raccontati le nostre paure e speranze, e di colpo tutto si è mutato in una fitta di dolore, dalla quale sono rinata: ho traversato il dolore e il dolore stesso mi ha traghettato dall’altra parte.

Questo è l’altrove che ho rincorso per tutta la vita. È qui. Era sempre stato qui. Lo dovevo capire sperimentandolo, che l’Altrove si sovrappone all’Ovunque, e forse questo è uno dei tanti significati nascosti di Alfa e Omega: il viaggio si concluderà dov’era iniziato.

                                                              

Altrove & Ovunque.

Be my knife - 6. Della morte e d’altri coltelli

Qualcuno mi ha scritto: “ti sei presentata come una sconosciuta”, ma una sconosciuta non potrebbe scriverti in questo modo. La verità è che so imitare abbastanza bene la maggior parte dei gesti di un adulto normale, e come tutti porto con disinvoltura la maschera di morte.

In ebraico c’è un ossicino che si chiama “luz” e che non si decompone dopo la morte né brucia nel fuoco. Da quell’ossicino l’uomo verrà ricreato al momento della resurrezione dei morti. Così, per un certo periodo ho fatto un piccolo gioco: cercavo d’indovinare quale fosse il “luz” delle persone che conoscevo. Voglio dire, quale fosse l’ultima cosa che sarebbe rimasta di loro, impossibile da distruggere e dalla quale sarebbero stati ricreati. Ovviamente ho cercato anche il mio, ma nessuna parte soddisfaceva tutte le condizioni. Allora ho smesso di cercarlo. L’ho dichiarato disperso finché l’ho visto nei tuoi occhi, il mio “luz”!

Ma tu eri sprofondato nel tuo pozzo di Giuseppe, credi che un giorno potrai mai raccontarmi cos’hai provato a star lì? E cosa ti succedeva nei giorni “maledetti” (hai usato intenzionalmente questa parola?) in cui ti sentivi come il pozzo dopo che anche Giuseppe l’aveva abbandonato? Era un dolore impossibile condividere con qualcuno.

Certi sguardi, certe espressioni, certi silenzi ti riducono in polvere e cenere. Ci vuol davvero poco a rovinare un essere umano per sempre… E tu cerchi sempre di essere diverso da quello che si racconta di te, vorresti che quell’uomo del passato morisse anche nel ricordo altrui.

Per me non esiste la morte: devi sapere, però, che da qualche parte dentro di me c’è un punto vulnerabile che chiunque, anche uno sconosciuto, può vedere e colpire. Eliminarmi con una parola.

Sono sempre stata così: un maremoto. Ma la vita è molto più sopportabile ora; col tempo si dimentica perfino la paura di calpestare le righe fra le piastrelle. Quanto abbiamo parlato di questa fobia immaginaria, per poi scoprire che esisteva persino una parola per descriverla, in tedesco naturalmente: Schwellenangst. Ma non temere: oltre la soglia non ci sono più coccodrilli in agguato.

Da piccola ho visto tante morti, ma nessuno mi aveva spiegato come si fa a morire, così quando morì mia nonna mi strinsi una cinghia con forza intorno al cuore, mi stesi sul pavimento e attesi la morte, in silenzio. Dopo essere rimasta a lungo sdraiata sul pavimento della cantina, vedendo che non ero morta, tornai a casa, stremata. Feci tutti i gesti di una normale bambina di otto anni perché avevo capito – vagamente, ma irremovibilmente - che, anche se fossi morta, “loro” non l’avrebbero mai scoperto. Il mio cervello era aggrovigliato come un intestino…


Meditavo… che in qualche punto dell’universo deve pur trovarsi quel mondo di cui abbiamo parlato una volta. Un mondo dorato di luce, un mondo giusto, in cui ogni essere umano possa trovare la persona che gli è destinata. In cui ogni amore è un vero amore e, ho subito pensato a quelli che nemmeno laggiù sarebbero capaci di vivere, a disagio con una bontà e una generosità tanto abbondanti. Quei maledetti si suiciderebbero. Insomma, è possibile che il nostro mondo sia il penitenziario di quell’altro mondo, e che ogni essere umano che vedi intorno a te si sia già suicidato? Sapresti resistere alla tentazione di sbirciare nell’inferno di un altro?

Be my knife - 5. Della coppia e d’altri coltelli

“Te l’avevo detto”...
Il mahamantra della vita matrimoniale.

Ridiamo ogni volta una coppia accanto a noi si aggredisce così perché tra noi c’è un legame indescrivibile a parole, che non nasce nelle parole, ma nel corpo, nel contatto, nelle sensazioni sottopelle. E sappiamo anche che in effetti non dovremmo ridere, ma mostrare con l’esempio cos’è l’amore.

Come quella volta che hai iniziato a rivestirti e mentre io ti aiutavo, un indumento dopo l’altro, per tutto quel tempo hai baciato le mie lacrime, e hai finalmente capito che, per proteggermi da te, avresti dovuto semplicemente rimanere con me, per sempre. Me lo promettesti quasi per scherzo, ma era anche una verità profonda e il logico destino di due persone, di una coppia - una coppia un po’ strana, al punto che persino alcuni nostri amici non sempre capiscono come possiamo stare insieme, e a dirla tutta, talvolta nemmeno noi lo sappiamo: l’amore ci ha trasformati. 

A quel punto ci siamo riposati un po’, assaporando in silenzio l’eterna promessa. Difficile descrivere l’intensità di quel momento. Entrambi ci affiniamo ogni giorno in vista della perfezione, ci alleniamo a distillare l’essenza della nostra coppia. In tanto tempo insieme ci siamo fusi l’uno nell’altra, e a volte mi sento come se avessimo assunto un terzo sesso, quello del matrimonio, e i nostri corpi, ormai disciolti l’uno nell’altro, fossero diventati il punto di approdo della passione, e non più il mezzo per soddisfarla. Siamo ormai la stessa carne e a volte è davvero terribile: io ti sento tutto, sento tutto di te, ogni pensiero, ogni ripensamento. E tu vedi tutti i miei sbalzi. E ami ciascuno: quelli che mi fanno approdare a te, e quelli che mi fanno disperdere in un mare di lacrime, come Alice.

Siamo diventati l’uno per l’altra luce, calore, sangue; il tessuto stesso della vita. Per questo tutto è anche così complicato, perché nel bene e nel male, siamo pur sempre ancora due persone. Le altre coppie si amano pigiate nel barattolo del matrimonio, dove ogni respiro sottrae ossigeno e inavvertitamente, inconsapevolmente, s’inizia a tenere una contabilità meschina con la persona che si ama di più. Alla fine tutto diventa calcolo, bilancio e ci si rinfaccia di tutto: chi guadagna e chi lavora di più, in casa o fuori, chi ama e accudisce meglio i figli, persino chi prende più spesso l’iniziativa a letto e addirittura chi interrompe per primo un bacio.

Una volta ho sentito dire che un triangolo non è necessariamente una figura instabile, anzi, “in un determinato contesto” può essere addirittura appagante e può persino arricchire, e il tizio sosteneva che fosse pure “conforme alla natura umana”, “almeno alla mia” ha concluso la sua perorazione al bar, suscitando un’enorme curiosità nel ristretto pubblico dei suoi accidentali uditori.

“A patto che sia equilatero” ha precisato subito qualcuno, “e che tutti i suoi lati siano consapevoli di far parte di un triangolo”… Voleva essere un rimprovero? Cosa sapeva la persona di quel tizio? Comunque il primo oratore ha risposto che chi non crede nella possibilità di una “geometria poetica” non potrà mai andare al fondo di tali problemi.

Per noi invece non ci sono figure poetiche, solo profili e ricordi, e se desidererai venire da me, sarà alla luce del sole, senza bugie, perché io non so più vivere negli anfratti. Quando sei con me, conosci alla perfezione il mio vocabolario più intimo. Radice della mia anima, radice della tua anima.

In tua assenza, le parole sbiadiscono, manca loro il rosso della vita e mi sento solo un accessorio in un culto privato.

***

Non è successo niente ma ho sentito che, piano piano, stavo uscendo dalle tenebre. Nel corso di un’intera vita trascorsa al fianco di una persona si può sperimentare tutto l’arco delle sensazioni umane. M’interromperò qui, viverti mi ha fatto molto piacere e anche molto male. Prometto che non ti scriverò e che non cercherò di mettermi in contatto con te. Non t’importunerò mai più. A malincuore chiuderò la porta che ti ho aperto con tanta gioia. Cala la sera, la pioggia si preannuncia nell’aria e io ti scrivo.

Talvolta c’è un foglio sotto la penna, ma la maggior parte delle volte sono appunti mentali. Negli ultimi giorni ho la sensazione che in qualche modo siamo compressi dentro quest’unica parola: “amore”. Correggimi se sbaglio. Correggimi!

Avevi ragione: in fondo stavo cercando un compagno per un viaggio immaginario. Non capisco cosa sia questo impulso che non mi abbandona senza darmi tuttavia alcun sollievo. Ogni volta giuro a me stessa di fermarmi un attimo prima che la mano apra il quaderno, ma la mano corre più veloce di me. Cerco anche di non pensare a te. Ma anche tu sei sempre più veloce di me. 
Non mi farò illusioni, ma sento i tuoi occhi sospesi sulle mie labbra: cosa vuoi che dica? Cosa potrei dirti che ancora non ti ho taciuto? Se mi rimane un desiderio voglio che tutte le mie parole diventino corpo.

Stritolata