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Be my knife - 2. Dell’infanzia e d’altri coltelli

Ricordo di aver pensato: tra questi otto miliardi dev’esserci almeno una persona felice e voglio essere io! Una settimana dopo ero distesa in cantina con una cinghia intorno al cuore…

Dov’eravamo? Non smettere ora, non perdere questo tremito interiore. Il nostro respiro si è calmato, ma non ci siamo allontanati, pur nell’imbarazzo che di solito situazioni simili creano. Il nostro dialogo è semplice come il bacio che si dà a un bambino quando viene a mostrarti una ferita.

Il cuore si spezza al pensiero che si possa guardare così un adulto. Ha mai pensato di correre nudo per strada? Spogliarti non tanto per scandalizzare, quanto per essere il primo a farlo, per il bene di tutti. Penso sempre che un uomo nudo, o una donna, potrebbe fendere la folla come un coltello. Allora non ci sarebbe più ragione di fingere, perché com’è possibile odiare una persona nuda? Prova a combattere contro un soldato nudo…

Forse in psicologia c’è un nome per definire questo desiderio, o questa strana perversione: il bisogno che si sente di raccontare le proprie vicende a una determinata persona e solo a lei. Io lo sento così forte nei tuoi confronti. A volte mi dispiace non averti incontrato in un altro modo, più semplice. Di non aver cominciato con te una relazione appassionata e solo dopo, a poco a poco, essere arrivata a scoprire tutto il resto. Ma tu mi hai animata come un rabbino il suo golem, sfiorando un punto della mia mente che si riattiva ogni volta che penso a te: a sinistra, dietro l’orecchio; è il punto delle visioni e dei sogni che avevo da bambina. Lì ho passato la maggior parte dell’infanzia. E per anni non ci sono tornata, avevo perfino dimenticato la strada per arrivarci.

Sono nata da genitori normali e ho sempre vissuto in famiglia, che è stata un fondamento e un campo di addestramento che sempre ho disertato… Non poche madri, immagino, hanno la sensazione che i figli le svuotino, che prosciughino la loro linfa vitale. Beh, la mia lo dichiarava: la consumavamo come la luna, che ogni mese tenta di risplendere come il sole, ma giunta al suo picco di pienezza si estingue. Quanto dolore!

Dov’eri quand’ero bambina? In casa non c’era nessuno e io leggevo soltanto quando loro non erano in casa; ma ho deciso che non ti racconterò di loro; ho avuto un padre e una madre, ma la bambina che ero non aveva genitori. In un certo senso sono nata orfana, anche se lo sono divenuta molto più tardi.

Solo chi non è cresciuto in case simili può pensare che c’è una netta distinzione tra “solitudine” e “lotta per l’intimità”. La vividezza di quei ricordi mi sorprende ogni volta che li ricontatto.

Eppure quanto ho riso leggendo che all’inizio avevi collegato l’odore di fumo che emana dai miei fogli alla fiamma che brucia in me. “Dovevi essere una bambina che amava ardentemente” hai detto. Che strano non ci ho mai pensato con tanta semplicità. Ero una bambina un po’ anomala, certo non quella che sua madre avrebbe sperato. Per questo sapevo di dovermi mostrare comprensiva con loro, costretti a crescere una creatura tanto strana di cui non potevano capacitarsi. 

Ecco, anche questa lettera mi porta al passato. Non avrei mai pensato che saremmo arrivati a questo. Avrei voluto invece scrivere di te: indovinarti, come tu hai indovinato me. A volte rimango stupefatta nel vedere come sei disposto a credere alla fantasia che io sono. E se invece di queste cose opprimenti parlassimo un po’ della fantasia che sei tu?

Ma tu continui a nascondermi il mondo della tua realtà e a trascinarmi solo nella tua immaginazione. Come fai a destreggiarti tra tutte le porte che si aprono e si chiudono? E qual è il luogo in cui vivi veramente? Senti quello che dico? Riecco il mio solito timore per il tuo “udito selettivo”. O peggio ancora, per il tuo “udito collettivo”. Ma anche il mio coro greco bisbiglia senza sosta nella mente e i suoi lamenti riecheggiano nel cuore: dove vivi? Fino a quando m’illuderai? “Vivo soprattutto in quello che non ho…” così mi hai risposto, e quando l’ho letto mi è quasi sfuggito un grido: anch’io!

 ***

La bambina prigioniera dentro di me non permette alla donna di oggi di dormire: vuole uscire e di notte scalcia, e scalcio anch’io. Strano come tutto questo scompiglio spirituale si traduca in un “linguaggio del corpo”.

Se solo potessi raccontarti quello che vedo qui dentro: vedo una donna la cui maturità è come una cicatrice chiusa sulla ferita della bambina. Sotto quella “cicatrice” scorre ancora la vitalità d’un tempo, nelle forme della femminilità che è sorta esattamente nel punto d’unione tra l’infanzia e l’età adulta.

Grazie al tuo intuito avevi capito che io stessa – e io sola - avrei potuto guarire quella cicatrice, fino a rivelare la bambina, la tua gemella luminosa, e ricominciando da lei, saresti potuto tornare ad essere l’uomo che sei, che eri destinato ad essere.

Chi è quest’uomo? È tutto questo insieme: adulto e bambino, uomo e donna, vivo e morto, e molte altre cose e molte altre persone – tutte riunite insieme, senza le divisioni artificiali che esistono dentro di te.

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