“Una mala genìa di truffatori, che il diavolo se li porti!” tuonava il padrone mentre il bravo lo aiutava a spogliarsi per poi metterlo a letto. Guardava di sottecchi quella tumefazione che si espandeva di giorno in giorno sotto il costato del suo signore, mentre gli slegava lo spadone. Le gambe gli tremavano tanto che aveva bisogno di aiuto anche per liberarsi dagli stivali.
Il Griso gli rimboccò le coperte con la compassione che si può avere per un malato che non vuole accettare, non parliamo poi di ammettere l’idea, di essere già spacciato. Troppa compassione, per i gusti di Rodrigo, che sbottò: “Maledetto! Vuoi soffocarmi? Apri quelle dannate tende! Luce! Luce!”
“Mio signore, è già notte”
“Allora porta una candela!”
La accese, la mise nella bugia, e non seppe mentire all’uomo che l’aveva cresciuto e che, seppur nella violenza, gli aveva dato un rifugio e un mestiere.
“Siete un cencio, signor padrone” disse il Griso, spostandosi prudentemente fuori dalla sua portata.
“Non permetterti mai più! Sciagurato!” ma poi Rodrigo s’avvide della buona fede del servo, e proseguì in tono più cameratesco: “mio fido Griso, sto bene! Sto benone! Ho solo bevuto un po’ troppo; ecco perché le gambe mi tremano. Ma sai… dovevo brindare al povero conte Attilio, che ora di sicuro sta ricambiando il mio augurio alzando il calice del Signor Nero, laggiù…”
“Vi prego, signor padrone, non lo nominate più, mi fare raggelare di spavento”.
“Raggelare? Qui si cuoce!”
“Forse avete più caldo voi nel vostro letto che vostro cugino tra le fiamme dell’inferno, non avete un bell’aspetto…”
“Insisti? Ti ho detto che sto bene!”
“Allora mi ritiro, se vossignoria non comanda altro” disse il bravo, impaziente di uscire da quella succursale dell’Ade che era diventata la stanza di Rodrigo.
“Va’ pure! Ma se chiamo vieni subito! E portati via quella dannata candela! Ha riempito la stanza di fumo!”.
Il Griso scosse la testa all’ennesima imprecazione del padrone, poi prese la bugia e si allontanò, sussurrando una canzonaccia per farsi coraggio nei corridoi bui del castelluccio.
Rodrigo rimase solo, avviluppato nelle pieghe delle coperte sempre più pesanti e opprimenti; continuava a perdere i sensi e si risvegliava sempre più confuso; volle gridare, ma non poté: come se un macigno gli gravasse sul petto.
La sua anima scivolò ancora una volta in un sonno sempre più simile all’oblio. Sopraggiunsero sogni affatto tranquilli, incubi ne quali suo cugino Attilio gli dava il benvenuto sulla soglia dell’Inferno.
“Ho passato due notti a vegliarti!” gli esclamò Rodrigo, cercando di allontanarsi, ma era come risucchiato.
“E adesso ti ricambio il favore facendoti da Duca, stammi vicino; qui non è sicuro”.
Il defunto lo scortò in un antro che riecheggiava dei lamenti dei dannati e brulicava d’ombre e larve, che si ritrassero appena l’Ombra del Signor Nero si profilò all’ingresso della grotta.
“Salute a voi, nobile Rodrigo! Come venite fin qua, per obbligo o per scelta?”
“In sogno, per la verità”, rispose Rodrigo con un fil di voce; poi si ricordò che stava sognando, e aggiunse, più baldanzoso: “Son venuto a vedere come avete sistemato il mio caro cugino Attilio”.
Già si beava d’aver saputo tener testa al Signor Nero, quando il sogno prese di nuovo una brutta piega, l’ospite sbatteva la coda biforcuta a destra e a manca, come un catone indeciso circa la pena da affibbiare al peccatore che gli stava dinanzi. Non gli piaceva che gli inferiori gli mancassero di rispetto: lui era sempre cortese coi suoi. Il conte Attilio cercò di rimediare.
“Chiedo il vostro permesso, mio Signore, di poter mostrare al mio caro cugino la mia nuova sistemazione”.
“Certo, certo, così almeno saprà dove cercarvi quando… beh… ehm… Se poi vi mettete a giocare a carte, chiamatemi, voglio rifarmi di una certa giocata andata male…”
“Che il diavolo lo porti!” esclamò Rodrigo soddisfatto dell’incontro, “richiamalo, voglio provare a scoprire i suoi bluffs!”
Le ore passavano e le montagnette di denari crescevano davanti alle carte del Signor Nero; Rodrigo continuava a perdere e puntare, perdere e puntare, finché non poté giocarsi altro che l’anima, e perse di nuovo e irrimediabilmente.
“Ne ho vinta un’altra! Ne ho vinta un’altra! Visto Attilio, che ti dicevo? Adesso resterete entrambi qui a farvi compagnia”.
§La povera anima di Rodrigo si dibatteva in quel corpo immondo, ma già il Nero la chiamava a sé, quando l’altro propose: “ma se invece di farmi restare qui ad abbrustolirmi mi rimandaste lassù… Sono ancora giovane, ho ancora tante malefatte da perpetrare, sto già progettando una vendetta e un paio di tiri mancini degni di voi…”
Il nero annuì tra sé e sé.
“E poi vi sono stato sempre devoto, ai piani alti non mi vorranno mai, tanto vale che mi perfezioni con la vostra livrea”.
Il Nero sorrise: tanto si era impossessato di quell’anima che ella stessa adesso non voleva altro che servirlo.
“Farò tutto ciò che mi ordinerete.”
Il Nero esplose in una soddisfatta risata.
“Bene Rodrigo! Ti lascerò vivere ancora un po’, ma solo perché devi uccidere *** (e pronunciò quel nome di quel gran signore che s’era da poco convertito)”.
“Lo giuro” sproloquiò Rodrigo e tremante firmò il patto col poco sangue che ancora gli scorreva pigramente in corpo. Il conte Attilio lo ricondusse all’ingresso dell’Ade, alleggerito di tutti i dobloni e della cosa più grave che avesse.
All’alba di molti giorni più tardi, Rodrigo si risvegliò nel lazzaretto da cui sapeva non sarebbe mai più uscito. Si chiese come avrebbe fatto a rispettare il patto, malconcio com’era.
In fin dei conti, pensava il moribondo, con tutte le malefatte che l’Innominato aveva sulla coscienza, l’anima sua sarebbe filata dritta all’Inferno senza bisogno che lui dovesse intervenire. Però sapeva che prima o poi ci sarebbe finito pure lui, e la sola idea di trascorrere l’eternità accanto all’uomo che avrebbe tradito e ucciso lo raggelava.
Non sapeva, Rodrigo, che quel gran signore era atteso altrove e che proprio la sua inattesa conversione era stata quella giocata che il Signor Nero aveva perso.
“Mi manca l’anima” gemette Rodrigo, e chiamò a gran voce il Griso, ma nessuno rispose.

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